Birra indipendente: oltre le ambiguità di “birra artigianale”
Disclaimer: quanto segue affronta una questione squisitamente lessicale. Nessuna birra è stata maltrattata nella stesura di questo post.
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Le ambiguità di craft–artigianale
Nel mondo della birra, l’aggettivo “artigianale” è spesso fonte di perplessità e fraintendimenti. In Italia, esiste una legge che definisce la birra artigianale dove si specificano le caratteristiche di un birrificio e della lavorazione necessarie per ottenere una birra artigianale a norma.
Tuttavia, non esiste una definizione universale di birra artigianale; essa varia da paese a paese, in base al momento storico e alla tradizione birraria. Questa discrepanza diventa evidente, per esempio, quando tengo lezioni sulle differenze tra l’Italia e gli Stati Uniti, come parte del programma del primo livello del corso Unionbirrai Beer Taster.
Questa diversità si manifesta anche nei parametri quantitativi accettati per definire una birra come artigianale. Negli USA, si considera artigianale ciò che in Italia non lo è, a cominciare dai volumi annui massimi consentiti a un birrificio che voglia uscire con birre artigianali. Da noi, il tetto è 200.000 ettolitri, negli Stati Uniti, ben 7.020.000. Oltre sette milioni di ettolitri che equivalgono a 6 milioni di barili, l’unità di misura usata dagli americani per le cubature birrarie.
Questo dato ci mette di fronte a due mondi non del tutto simili: da noi, artigianale è anche micro, da loro no, o comunque non solo.
Senza addentrarci ulteriormente nel ginepraio – metto solo il link alla slide riassuntiva che uso durante le lezioni a beneficio dei nerd di passaggio – mi preme sottolineare la scomodità dell’aggettivo “artigianale”, che non permette di dare una definizione monosemica, lasciando la questione aperta e per certi versi fumosa.
In questa ambiguità, l’industria ci si è buttata a bomba, inventandosi le birre crafty, ovvero le birre che scimmiottano le artigianali, ma che in realtà artigianali non lo sono neanche un po’.
Le birre crafty riescono benissimo a trarre in inganno il cliente distratto, complice anche la grande distribuzione, in cui di sovente troviamo tutto il mondo della birra mischiato sugli scaffali, difficilmente identificabile a chi non si sappia già muovere in questo ambiente.
Le etichette industriali, artigianali, artigianali di seconda linea, quelle che hanno perso lo status di artigianale ma per un periodo lo sono state, le trappiste e le loro cugine d’abbazia che da sempre abitano al supermercato… E ora anche queste crafty, dai nomi che evocano millemila luppoli o che millantano una terra, una tradizione di provenienza, ma in realtà sono solo birre uscite dalle linee di produzione di una multinazionale qualsiasi.
Allora non c’è speranza? Non saprei, io mi limito a leggere che cosa accade in altri paesi, e mi trovo piuttosto d’accordo con Pete Brown quando scrive: ‘The battle for “craft” – the word – is lost. So craft beer – the movement – has gone in a new direction’.
Valorizzare il lato indie della birra artigianale
Dunque, il termine craft non ha mai avuto una definizione autentica e stabile nel mondo della birra, e altrove si sta provando invece a valorizzare l’aspetto indie.
In Australia, è nata una tendenza nuova che si sta già consolidando e, in soldoni, consiste in un mero rebranding. Allora, nessuna rivoluzione, considerando che la definizione di birra artigianale si fonde con quella di birra indipendente portando a un nuovo modo di comunicare lo stesso prodotto.
Tuttavia, dal punto di vista del marketing, puntare maggiormente sull’aspetto indie rispetto a quello craft risulta più attraente.
Ci sono situazioni in cui la distinzione tra artigianale, indipendente e industriale non viene considerata, anche in concorsi blasonati come, ad esempio, al Brussels Beer Challenge, dove le birre italiane premiate provengono anche da birrifici non più artigianali perché hanno ceduto parte o tutta la proprietà a multinazionali della birra. Ma in altri contesti, importa eccome.
Per esempio, nell’equivalente australiano di Unionbirrai, ovvero la Craft Beer Industry Association (CBIA), che già da un paio di anni ha cambiato nome: ora si chiama Indipendent Brewers Association (IBA) e ha lanciato un marchio ufficiale per identificare le birre brassate da birrifici indipendenti. Lo stesso è stato fatto dall’americana Brewers Association, che di recente ha cambiato nuovamente la sua definizione di birrificio artigianale.
In USA, è la Brewers Association a decidere che cosa sia craft beer e cosa no.
Avere una legge che regolamenta la birra artigianale, come accade in Italia, non è la norma a livello internazionale. Siamo, infatti, l’unico paese al mondo ad avere una legge del genere, mentre gli altri si affidano alle linee guida delle rispettive associazioni di categoria.
Un altro aspetto da sottolineare è legato alla “purezza del prodotto”. Sul marchio americano, l’aggettivo independent è predominante rispetto a craft, così come sul sito web dedicato: SupportIndependentBeer.com.
Tuttavia, alla Brewers Association non importa il tipo di birre che entrano sul mercato; l’importante per loro è rimanere sotto il tetto dei 6 milioni di barili e che la proprietà del birrificio sia indipendente, con almeno il 75% delle quote in mano alla birreria artigianale. Tutto qui.
In Italia, il vincolo è più ristretto. Per rimanere un birrificio artigianale, è indispensabile che la proprietà appartenga al 100% al piccolo birrificio indipendente e, come detto sopra, non superare i 200.000 hl. Da noi, l’aspetto “craft” è ancora fondamentale per la comunicazione, anche se l’indie comincia a prendere piede.
Birra indipendente: una mera scelta lessicale?
Non si tratta di una mera scelta lessicale fine a sé stessa a uso e consumo dei “nerd” della birra.
Infatti, nel campo “indie”, le grandi industrie non possono creare confusione così facilmente come hanno fatto nel campo “craft”.
In fin dei conti, è un lavoro di marketing e comunicazione. Resta da vedere come si evolverà la situazione nei prossimi anni.