Il gentiluomo bolognese che faceva l’homebrewer nel ‘600
Homebrewing ante litteram: L’Economia del Cittadino in Villa di Vincenzo Tanara
Il lavoro dell’homebrewer si svolge all’insegna di pulizia e misurazioni continue, precisissime: temperature, grado plato, ibu, ph, indice di rifrazione, srm, peso e proporzioni degli ingredienti… a cui si aggiungono le innumerevoli tempistiche in tutte le fasi della preparazione.
Ma non è sempre stato così.
In epoca antica si doveva per forza di cose ricorrere a metodi più empirici, ovvero fare tutto a occhio, spesso usando le parti del corpo come strumenti di misurazione.
Nella prima metà del Seicento, Bologna conobbe un personaggio piuttosto eclettico, il marchese Vincenzo Tanara, militare e poi magistrato con la passione per la scrittura.
La sua opera principale si intitola L’Economia del Cittadino in Villa. Pubblicato nel 1644 fu un vero e proprio best seller, con una decina di ristampe uscite a ruota della prima edizione. In questo libro si raccontano, con un gran gusto per i dettagli, le attività agricole e di fattoria: dalla vita dei campi alla conoscenza e lavorazione delle materie prime della terra, fino ad arrivare alla produzione degli alimenti.
Tra il paragrafo dedicato alla “Qualità dell’acqua buona” e quello sul “Sorbetto”—preparato alla maniera spagnola, attenzione!—, troviamo due pagine sul “Fare la birra in casa“. Il procedimento è grossolano e descritto con linguaggio piuttosto colorito, ma al tempo stesso è corretto e completo di tutte le fasi, sebbene ci siano errori che saranno poi chiariti dalle scoperte scientifiche dei secoli successivi.
Si parte dalla descrizione della maltazione casalinga in cui bisogna sistemare a “forma di monte” i grani precedentemente bagnati per ventiquattr’ore, finché “il principio della putrefazione” li farà “crepare e germogliare”. Quasi ogni tipo di cereale va bene per fare “la Birra detta ancor Ceruosa”, ma i preferiti sono orzo e frumento. È durante questa primissima fase che, secondo il Tanara, si manifesta il “principio della fermentazione”, a cui deve seguire l’asciugatura perché quando i chicchi saranno “ben aridi” sarà più facile spezzarli per ricavarne una “mezza farina”.
Anche le fasi della bollitura vengono riportate nei particolari ma, come abbiamo già detto, non prevedono l’uso degli strumenti di misurazione e allora si fa tutto a occhio.
Per regolare la temperatura del mosto, si legge: “caldo che appena ci si possano tenere le mani dentro”; e poi ancora: “aspetta che si raffreddi finché diventerà caldo come l’urina umana”. Invece, per ottenere una mistura ben amalgamata bisogna “maneggiare assaissimo il liquore nel tino” finché “diventi come latte”.
Seguono le fasi del filtraggio e della luppolatura, con una descrizione dettagliata degli strumenti da usare e, una volta separata la parte grossa, il liquido potrà ritornare in bollitura “con l’aggiunta di onze sedici di fiori di luppoli per ogni corba di materia”.
Leggendo questo testo di quasi quattrocento anni fa sorprende la dimestichezza dell’autore con le varie tradizioni birrarie europee. Ci racconta degli inglesi che aggiungono zucchero, cannella e chiodi di garofano alla loro birra, “maneggiandola” nella botte e addirittura, in alcuni casi “per renderla più fumosa e di gusto più irritante ci mettono dentro a bollire l’oglio”. I fiamminghi invece preferiscono la birra fatta con il pane o la semola per renderla più spessa. Infine i moscoviti si servono delle mele per ottenere una birra delicata e potente.
Della birra fu cantato:
«Non son Vino di Nome, io son di fatti,
Perché fo, come il Vin gl’huomini matti.»